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L’altro 11 settembre: quando gli Usa uccisero la democrazia

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Il ricordo di Patricia Mayorga del golpe cileno nel 1973: l'imposizione della 'democrazia' statunitense e la fine del governo socialista di Salvador Allende

“Gli Stati Uniti ci hanno tolto anche l’11 settembre”. Una considerazione sarcastica quella di Patricia Mayorga, giornalista cilena impegnata da sempre nella difesa dei diritti umani, scrittrice che ci ha consegnato ritratti come il sindacalista Manuel Bustos e la presidente Michelle Bachelet, svelando altresì la rete assassina tra i neofascisti italiani e il regime dittatoriale di Pinochet. Una data, quella dell’11 settembre, che rievoca la tragedia dell’attentato alle Torri Gemelle. Era il 2001 e il mondo assistette in diretta all’attacco terroristico da parte dell’Islam a quello che oggi, tramite un’amara legge del contrappasso, viene indicato come l’impero del male. Ma c’è un altro 11 settembre, sopraffatto da quello subìto da New York. Correva l’anno 1973. E il mondo assisteva al dramma del Cile, con l’assalto al Palacio de La Moneda da parte dei militari guidati dal generale Augusto Pinochet, sostenuto dagli Usa, contrari al governo del socialista Salvador Allende, il primo presidente di sinistra democraticamente eletto in America. Artefice di quello che da lì a poco divenne tristemente noto come il Piano Condor è stato il segretario di Stato statunitense Henry Kissinger, vero stratega del piano di riorganizzazione nazionale perpetrato col terrore esteso all’intero SudAmerica per contrastare ogni forma di governo di ispirazione comunista o socialista.

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Il ricordo di quell’11 settembre 1973?

Avevo 23 anni e ricordo in modo nitido quel giorno. Il giorno prima ero passata alla Radio Nacional, un’emittente della sinistra rivoluzionaria, appartenente al partito Mir (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria, ndc), dove avevo cominciato a collaborare come giornalista, per salutare la responsabile della redazione. Per tornarle utile nella gestione del figlio trascorsi la notte a casa sua, ma la mattina fui svegliata dalla radio che rimbalzava il caos che si era creato a Santiago. Dato che l’aria nella capitale non era così pesante avevo creduto che la radio stesse trasmettendo una replica del Tanquetazo avvenuto il 29 giugno. Poi capimmo che il Palazzo della Moneda era stato occupato dai militari, perché a ogni istante venivano lanciati alle radio proclami molto minacciosi, richiamando a un patriottismo dimenticato, senza comunque mai pronunciare la parola golpe. In quelle ore caotiche e concitate, bruciai dei documenti compromettenti per me e la mia amica giornalista, poi lei è andata via al sicuro mentre io rimasi chiusa in casa dopo che alle tre del pomeriggio fu indetto il coprifuoco, durato fino a mezzogiorno del 13 settembre. L'ho rivista molti anni dopo a Roma.

Santiago del Cile era diventata un inferno per chi professava simpatie di sinistra?

Sì. A Natale del 1973 tornai a Valdivia, a 750 km a sud di Santiago. Il ritorno nella mia città rappresentò una sconfitta, non avevo un soldo e dovetti sopportare i rimbrotti di mia madre, pervasa da ideali democristiani, delusa dall’ultima figlia così militante di sinistra, anticonformista e ribelle, ancora senza marito e che aveva abbracciato lontano da casa gli studi di giornalismo. Furono mesi duri lì a Valdivia, una città dove scherzosamente diciamo che piove 13 mesi l’anno. Ma è stato un periodo molto duro e triste: è stata l’ultima volta che ho visto mia madre.

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E non sei tornata a Santiago?

Ad agosto 1974, ma è stata altrettanto dura. Di quel periodo ho rimosso molto, sopravvivevo confezionando abitini, tant’è che ho avuto un rifiuto quando diversi anni dopo avrei dovuto preparare il corredo a mio figlio. Era un periodo di terrore. A Santiago andavo a trovare una mia sorella e una mia amica, finché mi è stato consigliato di non farmi vedere più perché mettevo a rischio l’incolumità dei miei familiari e finché la mia amica divenne una desaparecida. A novembre conobbi un archivista dell’ambasciata italiana, sono diventata molto amica della moglie e lui, Cesare Rampioni, che ha salvato la vita a molte persone, mi ha nascosto nel bagagliaio della sua auto e così sono riuscita a entrare nell’Ambasciata italiana. Lì vissi due mesi. Gli espatri erano interrotti in quel momento perché ad agosto il cadavere di una militante di sinistra, Lumi Videla, era stato lanciato dai militari oltre il muro di cinta dell’ambasciata. Furono momenti tesi tra Italia e Cile, con l’ambasciata che si rifiutava di consegnare noi che avevamo chiesto asilo politico e con l’insistenza del governo cileno che ci accusava falsamente della morte di quella ragazza. Poi, a marzo 1975 i documenti per l’espatrio furono pronti e partii per Roma, dove mi fermai, in quanto in Italia esiste il coordinamento estero della solidarietà con il mio Paese. l’organizzazione Cile Democratico.

E quando sei tornata in Cile?

Nel 1988, un po’ prima del referendum che sancì la fine della dittatura di Pinochet, per partecipare a un festival culturale. Ben tredici anni dopo ho toccato di nuovo la mia terra, anche se avrò sempre l’angoscia di non aver potuto nemmeno assistere al funerale di mia madre.

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Ti riporto una frase di Henry Kissinger all’indomani dell’elezione di Salvador Allende presidente del Cile: «Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell'irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli». A distanza di tanti anni cosa pensi? 
Ormai non mi scandalizzo più di cosa siano stati gli Usa e non mi sorprende cosa siano oggi. Sono sempre stati posseduti dalla bramosia di pretendere di insegnare agli altri cosa sia il concetto di democrazia e come introdurlo negli altri Paesi. Un aspetto che si commenta da sé, non ultima la vicenda dell’Afghanistan. 

Cosa hai provato quando a gennaio alcuni statunitensi hanno assaltato il Congresso non accettando il verdetto elettorale della sconfitta dell’ex presidente Trump?
Ripeto: non mi sorprende il loro atteggiamento. Gli statunitensi sono così. Si autoproclamano americani quando dimenticano che anche io sono americana, credendo di essere predestinati da Dio a comandare sul mondo. 
 

2 anni fa
Autore
Gian Luca Campagna

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