Licenziata perché incinta, azienda condannata dopo quattro anni
I fatti risalgono al 2021, la donna venne posta in gravidanza a rischio
La Corte d’Appello di Trento ha scritto una pagina importante nella tutela della maternità in ambito lavorativo, condannando la multinazionale Dana che aveva licenziato una donna subito dopo aver saputo della maternità. I giudici hanno ritenuto l’azienda responsabile di discriminazione di genere nei confronti della donna, addetta alla contabilità presso la sede di Arco ed estromessa dopo aver comunicato il suo stato di gravidanza a rischio.
Gravidanza a rischio, donna licenziata
I fatti risalgono al settembre 2021. L’impiegata, che lavorava con un contratto interinale tramite l’agenzia Manpower con missione a termine fissata addirittura al 2049, viene posta in gravidanza a rischio. Dana, azienda del settore automotive con sedi ad Arco e Rovereto, decide immediatamente di interrompere la sua missione, estromettendola dall’organico.
In un primo momento, l’azienda, tramite la sua difesa forense, ha sostenuto di non avere alcun dovere nei confronti dei lavoratori in somministrazione, in quanto “formalmente dipendenti di altre aziende”. A proposito, con i referendum di giugno si vota anche sul rapporto che c’è tra azienda appaltatrice e azienda appaltata in termini di sicurezza sul lavoro (per approfondire: Referendum 8 e 9 giugno 2025, quando e perché si vota).
Successivamente, davanti al giudice del lavoro, Dana ha giustificato la decisione come “conseguenza di una ristrutturazione aziendale”, definendo la concomitanza con la gravidanza una “pura coincidenza”.
Una ricostruzione che non ha convinto i giudici: tra circa un migliaio di lavoratori, le uniche due persone estromesse da Dana in quel periodo sono state proprio due donne in gravidanza, a riprova di quanto la maternità sia ancora una causa di discriminazione professionale in Italia.
Quanto emerso dalle indagini ha pesato significativamente nella decisione della Corte d’Appello, che ha riconosciuto la natura discriminatoria del comportamento aziendale.
La sentenza, un precedente importante
La Corte d’Appello di Trento ha accolto il ricorso della lavoratrice, condannando Dana a riconoscerle il 100% della retribuzione fino al compimento dell’anno di età del figlio, oltre a un risarcimento per il danno morale causato dalla discriminazione. L’azienda dovrà inoltre farsi carico integralmente delle spese legali.
La sentenza stabilisce un principio fondamentale: la condizione di una lavoratrice in stato di gravidanza va tutelata sempre, anche in caso di contratto precario. In caso contrario, si configura una discriminazione di genere, vietata dalla legge.
Michele Guarda e Giulia Indorato, Segretari Generali di Fiom e Nidil del Trentino, hanno sottolineato come “la parità di genere e la tutela della maternità sono principi che vanno praticati nei fatti, coi comportamenti concreti”, altrimenti “le belle parole delle policy aziendali contro le discriminazioni di genere sarebbero solo ‘gender washing’”.
Un problema sistematico in Italia
La vicenda della lavoratrice trentina non è un caso isolato, ma si inserisce in un quadro allarmante di discriminazione delle donne nel mondo del lavoro, particolarmente accentuato durante la maternità.
Secondo il recente report “Le equilibriste: la maternità in Italia 2025” di Save the Children, il 20% delle donne smette di lavorare dopo essere diventata madre.
Tra le motivazioni più frequenti delle dimissioni volontarie rientrano la difficoltà di conciliazione della vita familiare con quella lavorativa, problemi legati ai servizi, all’organizzazione del lavoro o a scelte del datore di lavoro.
Il fenomeno della “child penalty” in Italia è particolarmente grave: secondo i dati di Save The Children, la penalizzazione economica subita dalle madri dopo la nascita del figlio è pari al 33% dei guadagni. Questo contribuisce a spiegare perché l’Italia occupi il 96° posto su 146 Paesi per partecipazione femminile al mondo del lavoro e il 95° posto per salary gap.
Tutte le forme della discriminazione in gravidanza
La discriminazione delle lavoratrici in gravidanza assume diverse forme, spesso subdole e difficili da contrastare. Come evidenziato da Elizabeth Gedmark, Vicepresidente dell’associazione statunitense A Better Balance, “le donne di colore con un basso salario sopportano il peso maggiore dei maltrattamenti legati al diventare madri”.
Le forme di discriminazione possono essere palesi, come licenziamenti o retrocessioni, ma anche più sottili: esclusione da formazione professionale e opportunità di crescita, creazione di un ambiente ostile che spinge alle dimissioni. In Gran Bretagna, un sondaggio ha rivelato che l’11% delle madri intervistate ha riferito di essere stata licenziata dopo aver comunicato la gravidanza.
Soprattutto nei Paesi con scarse tutele, la pandemia ha ulteriormente aggravato questa situazione, facendo emergere la difficile condizione dei genitori in attesa e dei neogenitori nel mondo del lavoro a basso salario.
Il quadro normativo: tutele esistenti ma non sempre rispettate
In Italia, la normativa a tutela della maternità è piuttosto articolata. La legge vieta che la lavoratrice venga adibita a lavori pericolosi dall’inizio della gravidanza fino al settimo mese di età del figlio, prevede il congedo di maternità retribuito all’80% e garantisce la conservazione del posto di lavoro attraverso il divieto di licenziamento dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del figlio.
In caso di licenziamento durante questo periodo, la legge prevede la nullità dell’atto e la reintegrazione della lavoratrice, oltre al risarcimento del danno. Tuttavia, come dimostra il caso della Dana, queste tutele vengono spesso aggirate, soprattutto nel caso di lavoratrici precarie o con contratti atipici.
La normativa antidiscriminatoria si estende anche alla fase di selezione e reclutamento, quindi a un momento antecedente alla costituzione del rapporto di lavoro, come stabilito dall’art. 25 del Codice delle Pari Opportunità. Questo significa che anche la mancata assunzione o mancato rinnovo di un contratto a termine a una lavoratrice perché si trova in stato di gravidanza può configurare una discriminazione di genere.
Mamme discriminate al lavoro, la società paga le conseguenze
La discriminazione delle madri lavoratrici ha conseguenze devastanti non solo a livello individuale, ma anche sociale, economico e demografico. Sempre più spesso le donne sono costrette a scegliere tra maternità e carriera in un Paese dove avere un lavoro non basta più , soprattutto se si è giovani. Non è un caso che si diventi genitori sempre più tardi con gli annessi rischi per la fertilità. “In media una donna di 30 anni ha il 69% di probabilità di restare incinta. Per ogni anno di posticipazione della maternità, le possibilità di restare incinta si riducono del 5%” ricorda il dottor Francesco Gebbia, ginecologo specialista in medicina della riproduzione Ivi Roma.
I salari bassi aggravano la situazione perché molte coppie che non saprebbero a chi affidare eventuali figli non possono permettersi i costosi servizi all’infanzia e le altre spese necessarie a mantenere un figlio.
Intanto, la fecondità italiana ha raggiunto il suo minimo storico: nel 2024 sono nati appena 370mila, 1,18 figli per donna.
L’esclusione delle madri dal mercato del lavoro rappresenta uno spreco di capitale umano e competenze. Secondo il citato report di Save the Children, una maggiore estensione dei servizi di cura favorirebbe una maggiore partecipazione al mercato del lavoro delle mamme, con benefici per l’intera economia.
Guardando oltre i confini nazionali, si vede come Paesi che hanno politiche lavorative più favorevoli alle donne e alle neomamme (Francia, Danimarca, Svezia, Islanda) hanno sia un tasso di fecondità più elevato (oltre 1,7 figli per donna) sia un’occupazione femminile superiore al 70%.
L’importanza della sentenza sul caso Dana
Per tutti questi motivi, la sentenza della Corte d’Appello di Trento rappresenta un passo importante, ma non sufficiente. Come sottolinea Michele Guarda, segretario Fiom, “l’auspicio è che questa sentenza costituisca un primo tassello per mettere al bando lo staff leasing e più in generale l’uso indiscriminato del lavoro precario, che lede la dignità del lavoro e delle persone, azzerando un secolo di conquiste sindacali”.
Per Susanna Camusso, responsabile delle politiche di genere della Cgil, “bisognerebbe tornare ad avere un discorso pubblico che dia per scontato che se un’azienda ti chiede se hai figli, tu la puoi denunciare. Invece non solo è totalmente normale che venga chiesto, ma è diventata proprio la regola. La regola dovrebbe essere l’assunzione anche incinta”.
La maternità continua a essere vista come un problema, appartenente alla sfera emozionale e privata, e non come una condizione portatrice di ricchezza sociale o come un elemento facente parte della macroeconomia di un Paese. Un cambio di paradigma è necessario, affinché la tutela della maternità diventi una prassi e non un’eccezione da celebrare.
Lottando per il diritto di voto, la filosofa francese Olympe de Gouges scriveva nel 1791: “Questa rivoluzione avrà effetto solo quando tutte le donne diventeranno pienamente consapevoli della loro condizione deplorevole e dei diritti che hanno perso nella società”. Parole che, a distanza di oltre due secoli, mantengono una sconcertante attualità.
(Demografica/Adnkronos)
ISSN 2465 - 1222
20-May-2025 14:38
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