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Il caso Acerbi vs Juan Jesus. Perché l'assoluzione?

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Il campo come lo spogliatoio sono luoghi inviolabili, dove le contese e le chiacchiere restano dei giocatori. E quei ricordi dell'adolescenza...

E alla fine assoluzione fu. Magari Acerbi avrà apostrofato nella concitazione della pugna Juan Jesus con ‘vai via, che sei solo un negro...’, ma l’ha sfangata dalla Disciplinare della serie A di calcio. Riprovevole? Razzismo? O, semplicemente, insulto che scappa a ogni giocatore del mondo quando l’adrenalina è alta, lo stress pure e la trance agonistica è a picchi vertiginosi?

Il calcio, si sa, è peggio della politica. È divisivo. Soprattutto quando assistiamo a questo genere di episodi. Chi ha calcato i palcoscenici dello sport a livello agonistico sa bene che esistono delle regole universali, che siano il rispetto e la dignità degli avversari, il sacro segreto del teatro belligerante e quello dello spogliatoio amicale. Difficilmente si va al di là di queste regole non scritte. Vale per il campo di calcio come per il tatami come per la pista di atletica.

Ma restiamo ancorati al calcio. Tanti anni fa Patrick Evra del Manchester United denunciò un giocatore della Lazio perché durante il match era stato insultato come ‘negro di merda’, così Sinisa Mihajlovic dovette difendersi e non tardò ad ammettere che dallo stesso colored era stato apostrofato come ‘zingaro di merda’, ma per lui era finita lì, in campo, non aveva necessità di amplificare quanto successo sul rettangolo di gioco, dove la tensione è sempre alta, perché, va ricordato, non è un gioco ma un lavoro, un lavoro che comporta scontro fisico, gioia atletica e dolore muscolare.

Certo, siamo in un momento storico in cui la soglia dell’attenzione sul politicamente corretto è altissima, così Juan Jesus si è sentito in diritto/dovere di ricorrere al giudice di gara per una equa sanzione. L’arbitro, un po’ spaesato che l’insulto fosse provenuto non dagli spalti ma da un contendente ha chiamato il presunto colpevole Acerbi, che, reo confesso, ha chiesto scusa e credeva di essersela cavata con una stretta di mano ma, soprattutto, con una gestualità e una serie di espressioni facciali sfuggite ai più, in cui spiegandosi a tu per tu con il giocatore del Napoli sgrana gli occhi, prova a motivare la reazione verbale e indica, quasi sorpreso dall’accusa di essere razzista, un compagno di squadra nero che transita lì, come a dire “ti ho insultato non in quanto nero ma in quanto avversario”. E anche, chissà, un rimprovero fraterno e amicale come a dire 'ma sei andato dall'arbitro a frignare?'. E così è stato. Certo, direte voi, ce ne sono di insulti quando si gioca e quello più spregevole è di sicuro l’offesa per il colore della pelle. Be’, anche la discriminazione per l’orientamento sessuale, quello religioso, ideologico e finanche territoriale raggiunge uno share mica male in campo tra i giocatori che se le dànno di santa ragione, con o senza palla. Quindi? Assolviamo Acerbi con formula piena perché le circostanze lo giustificano, preso dal raptus del gioco? Ni. Ne esce un’affermazione cerchiobottista, seppure personalmente propendo per un sì. Calci al pallone e agli stinchi, parole stonate che volano, poi è birra e abbracci nel terzo tempo che il calcio dovrebbe mutuare dal rissoso rugby. Certo, l'assoluzione ad Acerbi stona anche perché il calciatore ha chiesto scusa al calciatore, ammettendo quindi le sue colpe, poi ritrattate, mentre veniva allontanato anche dal ritiro della Nazionale. Il giudice avrà valutato le circostanze della pugna. Evivaddio. Juan Jesus non ci sta, però, così posta il pugno chiuso in perfetto stile Black Power, storico soprattutto a Città del Messico 68. Una protesta silenziosa, nient'affatto rumorosa, ma molto molto efficace. Chi stona è sempre chi sta sopra le righe, tipo la consorte di Acerbi, che in un eccesso di slancio difensivo del marito assolto, usa anche lei i social brindando a quei leoni da tastiera invitandoli a sciacquarsi la bocca. Il silenzio sarebbe stato elegantemente preferibile.  

Ma perché assolvo anch'io Acerbi? La mia è un'assoluzione che affonda nei ricordi e nelle azioni della gioventù. Quando si scendeva nel cortile per disputare interminabili partite di pallone (e non di calcio) la prima cosa era la conta tra i due ritenuti più forti, in modo da creare sin dall’inizio squadre equilibrate; così, i due ‘capitani’ a cascata sceglievano la propria formazione pescando tra le risorse umane in attesa, relegando all’ultima ‘conta’ la più pippa, che inevitabilmente veniva schiaffata in porta. Di solito, era chi schifava il calcio ma lo viveva come un necessario tramite per le relazioni, o perché era un tantinello sovrappeso o bizzarro assai nei movimenti. Non lo escludevamo dal gioco, questo mai, ma se fossi vissuto oggi sarei incappato in chissà quali atti di  nonnismo, bullismo e body shaming. Ma per fortuna ognuno è figlio del suo tempo.

27 Marzo
Autore
Gian Luca Campagna

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