Il dolore sullo scoglio di Lampedusa
Il 3 ottobre 2013 resta la data di una tragedia ancora oggi senza fine. Lo ricordiamo con uno stralcio del romanzo 'Mediterraneo Nero'
Il 3 ottobre 2013 le acque di Lampedusa, quelle circostanti il turistico isolotto dei Conigli, furono teatro del naufragio dove persero la vita 368 persone. Bambini, donne e uomini che cercavano di raggiungere l’Europa nel disperato tentativo di trovare una vita nuova, una speranza per vivere. Dal 2016 il 3 ottobre è diventato la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza.
Quella tragedia umana e quel dramma lo ricordiamo così, con uno stralcio del romanzo 'Mediterraneo nero' (Mursia) di Gian Luca Campagna, il nostro direttore, con gli occhi disperati e vuoti di uno dei protagonisti, il tunisino Khaled, scappato dal suo Paese dopo l'illusione della rivoluzione di primavera.
Il Libeccio alza il mare, porta vento caldo ma non spazza via il lutto dal cuore. Khaled se ne era rimasto inginocchiato per tutta la mattina davanti a quel piccolo tumulo di terra secca dove erano comparsi timidi ciuffi di gramigna. Hassam c’era scritto. Hassam e basta. Senza cognome. Con un pennarello era stato aggiunto 6 anni. Un nome, un numero, senza identità. Dall’altra parte del Mediterraneo perdi anche l’identità, puoi perdere anche il corpo, puoi anche non avere una tomba su cui pregare. Il custode del cimitero vi aveva piantato una croce. Due piccoli assi di legno, tra il bianco e il rosa, stinti, quasi marciti, forse ricavati dai legni di una barca affondata. “Mi dispiace per il tuo bambino, l’ho messo là. Non c’era posto, c’ho anche piantato una croce. Sì, lo so che sei musulmano, ma non potevo non mettere un simbolo. Una volta in cielo credo che Dio non farà discriminazioni, accoglierà tutti” così Turi aveva scosso il capo e voltato le spalle. Aveva ancora da fare. In quella porzione di cimitero di sabbia e polvere altri numeri reclamavano pietà umana. Almeno lui aveva avuto la fortuna di avere una tomba su cui piangere, su cui poggiare un fiore, su cui far prendere forma i ricordi.
Khaled aveva osservato il cielo, graffiato dagli aerei che salivano e scendevano. S’accovacciò ancora e fissò lo sguardo sulla tomba dove aveva appiccicato con tre spilli il disegno che gli aveva regalato un bambino al Centro d’accoglienza: una barca in mezzo al mare con le vele colorate come un arcobaleno. Solo che il vento lo avrebbe spazzato via e di Hassam non sarebbe rimasto che un nome, l’età ingoiata dal Mediterraneo, il ricordo finché sarebbe vissuto lui e forse Turi. Tuccio Fragapane a destra e Silvia Maggiore a sinistra: se ne stava stretto con due italiani il piccolo Hassam. “Tuccio e Silvia non hanno avuto figli in vita, erano brave persone, ora non hanno più nessuno che porta fiori sulle loro tombe. Ho comprato quei gerani di plastica per non umiliarli agli occhi della gente che viene qua a visitare i parenti”, così Turi aveva infilato la tomba del piccolo Hassam tra quei due. “Non se la prenderà nessuno, tuo figlio è piccolo e non occuperà spazio, Tuccio e Silvia saranno felici di avere compagnia. È in buone mani” aveva borbottato il vecchio custode del cimitero di Lampedusa.
La solidarietà arriva con la disgrazia, quando ormai non c’è più niente da fare. Non arriva prima. Khaled pianse. “L’ho vestito io tuo figlio. Ho chiesto a mia moglie di rimediare una maglietta, un pantalone e le scarpe in parrocchia. Per farlo entrare nella tomba gli ho dovuto reclinare la testa. Mi perdonerai, vero?”. Turi ogni tanto tornava sui suoi passi, si fermava accanto a Khaled, gli sfiorava la schiena con le ginocchia e lasciava cadere sulle sue spalle la destra per fargli sentire una vicinanza spirituale. Il giorno che era andato col medico legale e con Turi sulla barca erano stati investiti da zaffate rancide: quando erano sbarcati i morti erano rimasti adagiati sul fondo della barca, tra acqua di mare, gasolio, vomito e piscio. Per recuperare il corpicino di Hassam avevano riempito la mascherina chirurgica di foglie d’alloro per resistere ai conati che spingevano dallo stomaco. “Le spigole sono tornate, banchettano con la nostra carne” aveva soffiato Turi scrutando il corpo di Hassam, sbocconcellato quasi con un rispetto misto a dolcezza. “Quello stesso pesce che poi nei ristoranti mangiano i turisti e i capi di Stato” aveva sbottato il custode del cimitero scuotendo il capo.
Una passerella. Una passerella di cordoglio, di facciata, di presa responsabilità da parte dell’Europa Unita. Che maturava sull’isola e sull’isola restava. A Bruxelles, poi, c’è altro da fare, altre direttive da prendere, che riguardano l’Europa e non le terre fuori da essa. Una foto ricordo accanto alla Porta d’Europa, un ritorno alla coscienza pura, quella di adolescente, che abbraccia idealmente la sofferenza di tutti i popoli, poi di nuovo verso la vita di sempre, lontana dallo scoglio di Lampedusa e dalle masse di disperati che premono per entrare in quel mondo. Coscienza mondata agli occhi dell’opinione pubblica, spessore di ipocrisia che cresce dentro, ma non c’è tempo: appartieni a un altro mondo, a quello occidentale, a quello devi rispondere, non hai tempo ed energie da dedicare a un altro mondo. La solidarietà sì. Solo quella. Abbiamo la nostra vita a cui badare. Perdonaci, fratello.
Così Turi gli aveva tradotto quelle azioni di quegli uomini vestiti bene, tutti uguali, col viso alto, la sicurezza dentro di sé.
Bruxelles è lontana. Non può occuparsi dell'ultimo scoglio d'Europa.
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