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Il dramma dei migranti non vulnerabili

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La coordinatrice medica in Italia di Medici senza frontiere Chiara Montaldo: 'impossibile distinguere'

"Da tempo diamo per scontato che chiunque affronti quel viaggio in mare in quelle condizioni, chiunque sia transitato dalla Libia di oggi, che purtroppo conosciamo bene, è una persona vulnerabile. Per questo, da un punto di vista medico, abbiamo sempre considerato a dir poco 'sorprendente' che qualcuno dei migranti soccorsi in mare potesse essere definito non vulnerabile".

Così la dottoressa Chiara Montaldo, coordinatrice medica in Italia di Medici senza Frontiere, commenta la sentenza del tribunale di Catania che ha definito "illegittimo" il decreto del governo Meloni che il 4 novembre aveva imposto alla Humanity 1, arrivata al porto etneo, uno sbarco selettivo dei 179 migranti soccorsi in mare.

Dalla nave della Ong tedesca scesero solo i soggetti considerati vulnerabili - donne, bambini e casi medici - mentre 35 migranti considerati sani rimasero a bordo e avrebbero dovuto riprendere il mare. Ora il giudice del tribunale di Catania ha stabilito che quel decreto interministeriale è "illegittimo in quanto consente il salvataggio solo a chi sia in precarie condizioni di salute", sottolineando come "fra gli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese vi è quello di fornire assistenza ad ogni naufrago, senza possibilità di distinguere, come sancito nel decreto interministeriale, in base alle condizioni di salute". 

"Purtroppo non è possibile distinguere tra un paziente di serie A e uno di serie B fra le persone che vengono soccorse in mare - aggiunge Montaldo - Chi affronta il Mediterraneo a bordo di quei barchini, chi per mesi è stato torturato e picchiato in Libia, non può non essere vulnerabile. Ci sono ferite che vediamo bene, come le ustioni da benzina, quelle causate da percosse e torture subite in Libia, disidratazioni, ferite d'arma da fuoco. E poi ci sono tutte quelle che non sono visibili agli occhi ma che non per questo sono meno gravi. Anzi, a volte sono ancora più profonde e difficili da essere curate. Ecco perché eravamo assolutamente d'accordo sul fatto che in quello sbarco (Humanity 1 a Catania ndr) non fosse possibile 'selezionare' chi fare scendere e chi no". Tante le implicazioni per chi resta a bordo di una nave Ong più del dovuto.

"Da quando partono dalle coste dell'Africa a quando vengono salvati o arrivano in Italia con i loro barchini, queste persone vivono diverse fasi traumatiche - spiega la coordinatrice medica di Msf - Una prima fase è quella della paura della morte, che inizia in Libia, c'è quando sono in mare, in balia delle onde e rimane ancora quando vengono soccorsi ma comunque non sono ancora sulla terra ferma. Per questo è importante ridurre il più possibile la loro permanenza a bordo, anche nell'assegnare un porto sicuro. Le lunghe attese per veder assegnato un porto di sbarco o quando questo porto è troppo distante e occorrono giorni di navigazione per raggiungerlo, hanno un impatto negativo su queste persone già provate dal viaggio e, a volte, può rendere difficile la loro gestione a bordo. Il tempo di attesa prolunga quella fase di incertezza e di paura che loro già vivono". 

1 anno fa
Foto: pixabay
Autore
Claudio Mascagni

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