La lezione di vita e di giornalismo di Anna Politkovskaya
L'omicidio della giornalista anti-Putin va in prescrizione dopo 15 anni: nessun colpevole per la magistratura russa
Una giornalista scomoda.
Un regalo di compleanno.
La verità che va in prescrizione.
Eccoli i tre elementi che raccordano una storia vomitata dalla vita. Niente fronzoli. Siamo di fronte a una storia dove la scena è dominata da Eros e Thanatos. L’Amore stavolta è quello verso la verità, quella ricerca ontologica che parte da lontanissimo, fatta propria da alcune frasi totemiche come ‘Todo modo para buscar la voluntad divina’ di Ignazio di Loyola e che crede di vestire di bianco, la Morte invece è rappresentata da chi come nelle più scontate trame noir veste il Male, cioè nella fattispecie il potere corrotto.
Il Bene da una parte e il Male dall’altra, in chiara contrapposizione manichea.
Oggi è un brutto giorno per la verità. Anna Stepanovna Politkovskaja non ha ottenuto giustizia. La sua morte è andata in prescrizione. Infatti, si conclude in questo modo la tragica vicenda della giornalista scomoda per il regime di Putin assassinata a Mosca il 7 ottobre 2006, giorno del compleanno proprio del leader russo. Oggi, così, per il diritto russo sono scaduti i termini di prescrizione per trovare i colpevoli nel giorno del quindicesimo anniversario dell'omicidio della scomoda giornalista di Novaya Gazeta: infatti, secondo l'articolo 78 del codice penale russo chiunque viene esentato dalla responsabilità penale se sono trascorsi 15 anni dalla data del compimento di un crimine particolarmente grave. Semplicemente assurdo. Con la memoria della Politkoyskaja calpestata.
Certo, i grandi romanzieri russi nel tempo ci hanno abituato alle continue drammatiche contraddizioni dell’Impero sovietico, dai tempi degli zar agli oligarchi di oggi passando per i segretari generali del Partito Comunista. Ma se continuiamo ancora a sorprenderci e a indignarci vuol dire che possediamo una coscienza.
“L'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede” questo ripeteva la Politkoyskaja, minacciata, perseguitata e poi uccisa per i suoi reportage di guerra in Cecenia, Daghestan e Inguscezia, ponendo sempre l’accento sui diritti umani violati, sulla becera violenza, sugli abusi perpetrati sui civili, sulla corruzione di Mosca, sull’aridità del potere. La Politkovskaja si sporcò le mani con la guerra, visitando ospedali e campi profughi, intervistando sia militari russi che civili ceceni.
"Sono una persona che descrive quello che succede a chi non può vederlo": ecco il Politkovskaya pensiero, poche parole, semplici, come schietti e diretti erano i suoi reportage, con un linguaggio asciutto, senza fronzoli e con una prosa nient’affatto ricercata, a metà strada tra il new journalism, uso di dialoghi e di descrizioni dettagliate, e l'advocacy journalism, ponendosi come obiettivo l'utilità e la verità. Non era una spettatrice, Anna, madre e donna, ma una testimone –perché partecipe- del suo tempo, che dava voce a chi non aveva voce, a quegli ultimi che nelle zone di guerra e nelle situazioni d’emergenza non hanno diritto, quasi abituati a essere silenziati, assuefatti alle vessazioni. Sono quelle continue prese di coscienza a trasformarsi dapprima in articoli e poi in libri inchiesta, quegli “appunti disordinati ai margini della vita in Russia” diventano un grimaldello scomodissimo nel cuore del potere di Putin e dei generali che conducono una guerra spietata, che considera gli innocenti come generiche vittime sacrificali.
La storia è ciclica, si ripete in modo vergognoso, anche e soprattutto quella più becera. Così, tra i suoi scritti emergono le richieste delle madri dei soldati e dei giovani scomparsi nel nulla, come se i protagonisti fossero stati catapultati nel passato delle giunte militari sudamericane ai tempi del Piano Condor, annientati nel dolore della desaparición, e poi ancora ecco le ripetute denunce contro le ingiustizie in territorio russo e ceceno, gli abusi dei soldati federali russi e l’anarchia all’interno dell’esercito e il vergognoso lasseiz faire dei vertici governativi centrali, nonché le inchieste per reati di corruzione continuamente insabbiati e assolti dalla magistratura.
Di Anna Politkovskaya resta la sua lezione di vita e di giornalismo, la sua voglia di non arrendersi, il suo coraggio che non si sgretola davanti alle continue minacce o ai tentativi di avvelenamento o davanti ai proiettili di una pistola vigliacca e assassina. Resta la voglia di raccontare i fatti. E di addossare le responsabilità. Per creare un mondo più giusto.
Un regalo di compleanno.
La verità che va in prescrizione.
Eccoli i tre elementi che raccordano una storia vomitata dalla vita. Niente fronzoli. Siamo di fronte a una storia dove la scena è dominata da Eros e Thanatos. L’Amore stavolta è quello verso la verità, quella ricerca ontologica che parte da lontanissimo, fatta propria da alcune frasi totemiche come ‘Todo modo para buscar la voluntad divina’ di Ignazio di Loyola e che crede di vestire di bianco, la Morte invece è rappresentata da chi come nelle più scontate trame noir veste il Male, cioè nella fattispecie il potere corrotto.
Il Bene da una parte e il Male dall’altra, in chiara contrapposizione manichea.
Oggi è un brutto giorno per la verità. Anna Stepanovna Politkovskaja non ha ottenuto giustizia. La sua morte è andata in prescrizione. Infatti, si conclude in questo modo la tragica vicenda della giornalista scomoda per il regime di Putin assassinata a Mosca il 7 ottobre 2006, giorno del compleanno proprio del leader russo. Oggi, così, per il diritto russo sono scaduti i termini di prescrizione per trovare i colpevoli nel giorno del quindicesimo anniversario dell'omicidio della scomoda giornalista di Novaya Gazeta: infatti, secondo l'articolo 78 del codice penale russo chiunque viene esentato dalla responsabilità penale se sono trascorsi 15 anni dalla data del compimento di un crimine particolarmente grave. Semplicemente assurdo. Con la memoria della Politkoyskaja calpestata.
Certo, i grandi romanzieri russi nel tempo ci hanno abituato alle continue drammatiche contraddizioni dell’Impero sovietico, dai tempi degli zar agli oligarchi di oggi passando per i segretari generali del Partito Comunista. Ma se continuiamo ancora a sorprenderci e a indignarci vuol dire che possediamo una coscienza.
“L'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede” questo ripeteva la Politkoyskaja, minacciata, perseguitata e poi uccisa per i suoi reportage di guerra in Cecenia, Daghestan e Inguscezia, ponendo sempre l’accento sui diritti umani violati, sulla becera violenza, sugli abusi perpetrati sui civili, sulla corruzione di Mosca, sull’aridità del potere. La Politkovskaja si sporcò le mani con la guerra, visitando ospedali e campi profughi, intervistando sia militari russi che civili ceceni.
"Sono una persona che descrive quello che succede a chi non può vederlo": ecco il Politkovskaya pensiero, poche parole, semplici, come schietti e diretti erano i suoi reportage, con un linguaggio asciutto, senza fronzoli e con una prosa nient’affatto ricercata, a metà strada tra il new journalism, uso di dialoghi e di descrizioni dettagliate, e l'advocacy journalism, ponendosi come obiettivo l'utilità e la verità. Non era una spettatrice, Anna, madre e donna, ma una testimone –perché partecipe- del suo tempo, che dava voce a chi non aveva voce, a quegli ultimi che nelle zone di guerra e nelle situazioni d’emergenza non hanno diritto, quasi abituati a essere silenziati, assuefatti alle vessazioni. Sono quelle continue prese di coscienza a trasformarsi dapprima in articoli e poi in libri inchiesta, quegli “appunti disordinati ai margini della vita in Russia” diventano un grimaldello scomodissimo nel cuore del potere di Putin e dei generali che conducono una guerra spietata, che considera gli innocenti come generiche vittime sacrificali.
La storia è ciclica, si ripete in modo vergognoso, anche e soprattutto quella più becera. Così, tra i suoi scritti emergono le richieste delle madri dei soldati e dei giovani scomparsi nel nulla, come se i protagonisti fossero stati catapultati nel passato delle giunte militari sudamericane ai tempi del Piano Condor, annientati nel dolore della desaparición, e poi ancora ecco le ripetute denunce contro le ingiustizie in territorio russo e ceceno, gli abusi dei soldati federali russi e l’anarchia all’interno dell’esercito e il vergognoso lasseiz faire dei vertici governativi centrali, nonché le inchieste per reati di corruzione continuamente insabbiati e assolti dalla magistratura.
Di Anna Politkovskaya resta la sua lezione di vita e di giornalismo, la sua voglia di non arrendersi, il suo coraggio che non si sgretola davanti alle continue minacce o ai tentativi di avvelenamento o davanti ai proiettili di una pistola vigliacca e assassina. Resta la voglia di raccontare i fatti. E di addossare le responsabilità. Per creare un mondo più giusto.
3 anni fa
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