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Le scelte decisioniste della Schlein

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Il punto di vista di Follini focalizzato sulla svolta da parte del Pd

Non si può dire che ci sia stata una grande suspense. E’ andata come doveva, e come si sapeva. Berlusconi ha cambiato il capogruppo di Forza Italia alla Camera. Schlein ha eletto i “suoi” nuovi capigruppo a Montecitorio e a Palazzo Madama. Tutto secondo copione. Il copione, come è noto, prevedeva infine il rito dell’acclamazione. Un breve dibattito, dall’esito pressoché scontato. E poi un applauso, a suggellare la generale approvazione di scelte che i giornali avevano anticipato agli uni e agli altri, ai predestinati e alle vittime, già da qualche giorno. Ora, si dirà che nel caso di Berlusconi non si tratta di una grande novità. E’ fin dalle origini di Forza Italia che il Cav si riserva di riconoscere o di negare ai suoi delfini il titolo al “quid” che ora manca ora c’è a seconda del capriccio di chi glielo attribuisce. Modello di leadership che non indulge alla attesa, e tantomeno al dubbio, ma semmai alla più assoluta discrezionalità del comandante in capo.

Tutte cose che Berlusconi ha sempre rivendicato con una sorta di tetragona coerenza, opponendosi senza remore a qualunque sollecitazione di collegialità, condivisione, spartizione. Il suo potere è monocratico per definizione. Nel caso del Pd le cose sono invece più complesse, o magari dovrebbero esserlo. Infatti il partito del Nazareno è democratico per definizione, a cominciare dal suo stesso nome. E la sua leader, d’altra parte, è stata eletta a furor di popolo, sostenuta nei gazebo dal voto di migliaia e migliaia di militanti e cittadini. Dunque, non le si può imputare un difetto di democrazia. Ma forse appunto per questo la procedura per scegliere i nuovi capigruppo avrebbe potuto e forse dovuto essere più partecipata, meno verticistica. Diciamo pure, più sorprendente. E invece ha ricalcato un modello tipicamente decisionista: sbrigativo, prevedibile, per qualche tratto -sia detto senza offesa- quasi autoritario.

Così, nel nostro vocabolario politico si è nuovamente coniata una parolina -acclamazione- che vorrebbe rimandare alla gioia di un applauso e che finisce invece per evocare la mestizia di una decisione calata dall’alto e maturata con una certa frettolosità. All’indomani, si suppone, di qualche conciliabolo più privato tra quelli che maggiormente contano. Nulla di troppo scandaloso, s’intende. E neppure di troppo inedito. Sono anni ormai che gli equilibri nei partiti, le candidature, l’assegnazione degli incarichi seguono il copione scritto da leader trafelati, quasi sempre troppo indaffarati per lasciare spazio a dialettiche d’altri tempi. Dunque, suona come una predica brontolona la denuncia un po’ scandalizzata degli ultimi eventi. E tanto più l’evocazione di quel lontano precedente dei tardi anni settanta quando Gerardo Bianco guidò la rivolta dei “peones”, gli anonimi deputati democristiani, riuscendo a farsi eleggere capogruppo contro le indicazioni del mite Zaccagnini, allora segretario della Dc.

Nel frattempo, si sa, le procedure si sono snellite, i tempi si sino accorciati, e la cura per i dettagli è apparsa un po’ a tutti come una forma di passatismo indegno della nostra modernità. E così in tutti i partiti, proprio tutti, si sono scelti gli incarichi saltando a piè pari quei tortuosi confronti che una volta erano la croce e la delizia dei dirigenti di allora e di cui nel frattempo pare sia rimasta solo la croce senza più alcuna traccia di delizia.

Del resto, tutte le scelte sulle candidature che abbiamo diligentemente “votato” alle ultime elezioni sono avvenute allo stesso modo. Affidando alla penna del leader di partito la responsabilità di scrivere un nome oppure di cancellarlo. Affidandosi poi alla paziente benevolenza dei propri elettori. E senza però mai chiedere loro il disturbo di indicare una preferenza in materia. Resta il fatto che a furia di seguire strade così veloci, tanto apparentemente efficienti eppure così poco attente all’ascolto delle ultime file, accade infine che la democrazia si impoverisca. E che si riduca all’ascolto dei proclami dei leader di turno, finendo per considerare come un disturbo ogni complicazione che si frapponga alla fatidica acclamazione. Così, quell’applauso un po’ svogliato sembra evocare una contentezza non propriamente festosa. Alla lunga, forse, neppure tra gli “acclamati”. (di Marco Follini)

1 anno fa
Autore
Marco Follini

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