Adrian Bravi, letteratura sospesa tra passato e futuro
Lo scrittore argentino da anni in Italia descrive il suo mondo pineo di pregi e difetti di una variegata umanità
La narrativa per te è passato o anche futuro? (nel senso hai più stimolo nel raccontare le cose vissute piuttosto che immaginare quello che potrebbe accadere).
“Noi siamo proiettati verso l’uno e verso l’altro. Il passato non è un tempo statico, lontano da noi, ma ogni volta va reinterpretato alla luce della contemporaneità per poter andare avanti verso il futuro. Credo che la narrativa, anche quella distopica, è come l’angelo della storia di Benjamin, che ha gli occhi rivolti alla memoria del passato e le ali aperte, trascinate da un vento tempestoso, verso il futuro. Un tempo, quando si scrivevano le lettere, sapevi che il destinatario le avrebbe lette in un prossimo futuro; creavano una relazione temporale strana, raccontavi un passato rivolgendoti a un lettore futuro, ed è un po’ quello che succede in letteratura”.
Ne L’inondazione quanta biografia c’è con questo Río Sauce che sommerge case, vita e ricordi?
“Sono nato in quartiere di Buenos Aires chiamato San Fernando. Abitavo con la mia famiglia accanto al fiume Luján. Casa nostra si allagava sempre per via dello straripamento delle acque. I miei mi raccontavano che mi mettevano sopra un tavolo e rimanevo lì in attesa che le acque tornassero da dove erano arrivate. Non ho ricordi di quelle inondazioni. Dunque, il libro è nato, in parte, per poter fare i conti con questa mancanza di ricordi. È un libro dove provo a ricostruire attraverso l’immaginazione i ricordi che non ho”.
Il protagonista, Morales, è il rappresentante ideale del Sudamerica, fatalista, lassista, romantico. Potresti mai immaginare in una descrizione un personaggio diverso da Morales?
“Sono affezionato a quel personaggio, perché ha fatto il contrario di quello che ho fatto io, ossia, è rimasto a vivere nel posto in cui è cresciuto. Nonostante l’inondazione che ha sommerso tutto il suo paese e nonostante tutti i suoi abitanti decidono di andarsene, lui rimane, resiste. Immaginarlo con la sua barca a remi che attraversa le strade del paese mi piaceva molto. Sotto l’acqua è rimasto intrappolato il passato e sopra la superficie, il presente, e lui la sfiora con la barca”.
Ne La pelusa ti sei voluto allontanare dalla tradizione sudamericana e abbracciare una storia kafkiana ma dal forte sapore autobiografico, considerata l’avversione per la polvere da parte del protagonista, un bibliotecario?
“Come tutti, anche io ho le mie ossessioni (e ne ho parecchie). Una di queste è la polvere. In questo libro ho voluto portarla allo stremo. Nel periodo in cui ho scritto questo libro (il secondo che ho pubblicato in italiano) lavoravo in una biblioteca storica. Il mio compito era catalogare i libri antichi e avevo a che fare quotidianamente con la polvere. Tra l’altro, sono quasi convinto, la polvere sa custodire, meglio di qualsiasi altra cosa, la profondità delle cose”.
Ne L’albero e la vacca strizzi l’occhio al barone rampante di calviniana memoria e affronti il tema della crescita di ognuno di noi. Oggi quanto costa agli adulti crescere cercando di restare se stessi, fedeli all’io sognatore di un tempo?
“C’è sempre un affanno per essere se stessi. Io non ho mai capito cosa sia questo “se stesso” o “me stesso”. Uno è quello che è, a prescindere; sono le circostanze a determinarlo. Certo, ci sono i sogni, le ambizioni, il voler fare una determinata cosa, a volte a discapito di altre, ma non c’è mai stato un “se stesso” a determinare tutto questo. Solo la volontà e la caparbietà. Ne L’albero e la vacca volevo raccontare la separazione di una coppia attraverso gli occhi di un bambino che scambia la realtà con la finzione, anzi, trova più sicurezza nella finzione, in una bella vacca che ogni tanto gli compare davanti agli occhi quando sale su un tasso, piuttosto che nello squallore della vita famigliare”.
Per gli scrittori è possibile continuare a sognare e a scrivere di cose che arrivano dal cuore piuttosto che dal mercato?
“Il compito di uno scrittore è scrivere bene. Fare i conti con la propria voce, senza tenere conto di nulla, se non delle proprie convinzioni. Il mercato, le tendenze e tutto il resto non mi hanno mai sfiorato, ammetto che non sarei capace di adattarmi, so fare solo quello che mi va di fare. Se qualcuno si piega al diktat del mercato, mi dispiace per lui o per lei”.
In Restituiscimi il cappotto c’è un’aria di indolenza che avvolge l’intero romanzo. Cosa hai immaginato mai di voler fare oltre il bibliotecario e lo scrittore? Sarebbe possibile un Adrian Bravi diverso da quello di oggi?
“Restituiscimi il cappotto è stato il primo libro che ho pubblicato in italiano. Ne sono affezionato. Nella mia vita, per venire alla tua domanda, avrei potuto fare tante cose, dal carrozziere al venditore ambulante. Ma si dà il caso che ho cercato di fare quello che sto facendo, il bibliotecario e lo scrittore. Ho studiato, ho letto, mi sono impegnato per fare queste due cose insieme e il destino, o chi per lui, mi ha dato le condizioni per poterlo fare. Se questo non fosse stato stato possibile, chissà cosa avrei fatto. Forse sarei stato più felice, non lo so”.
In Verde Eldorado affronti vari temi, in particolare quello del viaggio che inevitabilmente porta a scontri, incontri e scoperte. Quanto ti manca il viaggio?
“I libri che scriviamo servono anche a questo, a viaggiare nel tempo e nello spazio. Mi sarebbe piaciuto trovarmi in un’imbarcazione che si addentra in un fiume inesplorato, nel periodo delle scoperte. Anni fa ho fatto dei viaggi in Sudamerica, anche in autostop. Ho dormito per strada, nei sottopassaggi, in spiaggia. Oggi, non mi mancano i viaggi in sé, ma sì lo spirito di erranza, l’apertura, la possibilità di cambiare rotta a ogni momento, quel lasciarsi andare all’avventura. Fino a una certa età, il viaggio, per me, era questo”.
Credi che un mondo migliore rispetto a quello che viviamo oggi sia possibile?
“Mi piacerebbe risponderti di sì”.
Hai scritto due romanzi scomodi, estratti intensi della vita dell’Argentina, che forse vuole solo dimenticare: Sud 1982 sulla guerra Falkland-Malvinas e Adelaida, la testimonianza tragica sugli anni della dittatura militare del 1976. Perché?
“Il primo, perché sentivo la necessità di raccontare, attraverso la storia di un ex combattente, quel tragico capitolo della storia argentina. In quel periodo, il 1982, facevo il militare, non sono stato al fronte, ma ho conosciuto molti soldati che si sono trovati chiusi in una trincea sotto i bombardamenti britannici. Avevo bisogno di fare i conti con quel passato. In Adelaida, invece, che è il mio ultimo libro, racconto la storia di una donna straordinaria che ha vissuto in prima persona la tragedia del regime militare. Lei è stata un’icona di quel periodo. Ha conosciuto l’orrore della perdita dei sui figli, l’esilio. Ha saputo incarnare quell’orrore e declinarlo attraverso l’arte”.
Se dico junta militar qual è il primo ricordo che ti viene in mente?
“Il pattugliamento delle strade, una macchina che si ferma davanti a un bar, scendono tre o quattro persone e si portano via un avventore, mia madre che controlla dalla finestra l’arrivo di mio padre”.
Quanta Argentina è rimasta nelle cose che scrivi?
“L’Argentina c’è sempre, anche quando non ne parlo. Ho vissuto in quel paese fino a ventiquattro anni, quindi, ha determinato il mio immaginario, il mio modo di vedere e di sentire le cose. Dunque, parlo di quel paese anche quando non ne parlo”.
Cosa ti manca di Buenos Aires?
“La città tutta. Le librerie, le strade, i parchi, la vita notturna, la lingua, la follia, la presunzione di sentirsi al centro del mondo, la seducente decadenza, la raffinatezza, la letteratura, il respiro di trovarsi in una delle capitali più belle dell’Europa o nella capitale di un impero mai esistito, il caos, l’imprevedibilità, il tango, il rock, i taxi, il cinema Cosmos, in Avenida Corrientes 2046, dove proiettavano film russi e dell’Europa dell’Est, dalla mattina alla sera. E tante altre cose, mi mancano”.
Un voto al presidente Milei?
“-1”.
Per vivere la tua seconda vita hai scelto l’Italia, che è un Paese molto simile all’Argentina: è così? Quali sono le caratteristiche più simili?
“Sì, sono due paesi simili ma allo stesso tempo molto diversi. Di simile hanno parte della storia”.
Una cosa che non sopporti dell’Italia?
“La chiusura dei cinema all’interno dei centri storici, la deturpazione del paesaggio, la Benetton, la mancanza di puntualità dei treni, la presenza incombente delle macchine, la disabitudine di spostarsi a piedi (c’è gente che se potesse prenderebbe la macchina per andare persino al cesso), la malavita, la carenza di mezzi pubblici, la corruzione… Ci vorrebbe un testo lungo come un codice civile per elencare solo alcune cose che non sopporto”.
E una cosa che ti fa impazzire?
“La lingua, in tutti i suoi aspetti, le sue variazioni diatopiche, la sua complessità dialettale, le sue inflessioni, le imprecazioni. E poi la sua letteratura, le Operette morali, Il deserto dei tartari, Gianni Celati. I centri storici, il Cristo velato che ho visto l’altro ieri per la prima volta… E anche qua, ci vorrebbe un altro codice civile per fare l’elenco”.
Si dice che non si decide dove si può nascere, ma sì dove si potrebbe morire. Toccando ferro, dove e come immagineresti la fine?
“Guarda, tirare le cuoia qua, tra questi libri che mi stanno attorno, a casa, non mi dispiacerebbe, ma se, invece, dovesse morire in mezzo al deserto, tra i tuareg, per esempio, anche quello non mi dispiacerebbe. Così come non mi dispiacerebbe morire sul Delta del Paraná, in Argentina, come Leopoldo Lugones. L’importante è che dopo essere stato qua, in questo mondo, dall’altro lato ci sia un riconoscimento, un diploma, una medaglietta, qualcosa che riconosca e testimoni che siamo stato da questo lato a tripolare inutilmente per le cazzate”.
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